lunedì 10 gennaio 2011

CONTRO IL PARTITO DEL CAPITALE

La settimana che si apre è di quelle cha lasceranno il segno nella storia del paese. In primo luogo per la vicenda Fiat. Come Liberazione ha chiarito in queste settimane, il ricatto mafioso di Marchionne, mettendo al centro il rapporto di produzione, ha una valenza politica generale. La revoca della possibilità da parte dei lavoratori di organizzarsi sindacalmente in fabbrica non è solo un attacco alle conquiste degli anni ’70, ma dello stesso impianto costituzionale del nostro Paese. La riduzione del lavoro a merce costituisce la negazione della repubblica nata dalla resistenza e fondata sul lavoro. L’offensiva della Fiat prelude quindi ad un passaggio di regime, in cui la sanzione simbolica dello stravolgimento della costituzione materiale del Paese, da attuarsi attraverso il plebiscito, costituisce il presupposto dello stravolgimento della Costituzione formale. Si tratta di una vera e propria rivoluzione conservatrice. La Fiat non è nuova a forzature di questo genere.
Dopo la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche nel 1920, nell’aprile del 1921 la Fiat aprì una offensiva con l’obiettivo di cancellare i regolamenti che prevedevano i Commissari di reparto (i delegati sindacali) e quindi la presenza del sindacato in fabbrica. Di fronte all’opposizione della Fiom, attuò una serrata al fine di ricattare gli operai. Dopo alcune settimane, oramai ridotta alla fame, la maggioranza degli operai accettò di firmare individualmente il nuovo regolamento di fabbrica che prevedeva l’abolizione dei commissari di reparto. In seguito la Fiat riaprì la fabbrica applicando il nuovo regolamento che era stato sottoscritto sotto ricatto dalla maggioranza degli operai e ne licenziò 1500, in larga parte commissari di reparto e comunisti.
Cosa accadde dopo, con l’avvento del fascismo lo sappiamo. Fu nuovamente l’iniziativa della Fiat a chiudere il decennio di lotte degli anni ’70 e ad aprire la strada alla demolizione del soggetto che di quel decennio aveva rappresentato la spina dorsale: il sindacato dei consigli. Nel 1979 la Fiat licenziò 61 operai con motivazioni formali inconsistenti, ma lasciando trapelare che si trattava di terroristi. La risposta fu debole e l’offensiva passò. I lavoratori che i magistrati reintegrarono non vennero mai fatti rientrare in fabbrica. Dopo questa prima offensiva “di assaggio” partì l’attacco vero e proprio, con la richiesta di 14.000 licenziamenti poi trasformati in cassa integrazione a zero ore per 23 mila persone. Questo sciagurato accordo non solo chiuse la stagione del sindacato dei consigli ma aprì la stagione della restaurazione craxiana. Oggi è di nuovo la Fiat a guidare le danze, a farsi partito e a dirigere la borghesia. L’obiettivo della Fiat è quello di indicare organicamente una strada di destra per affrontare la crisi del capitale. La riduzione del lavoro a pura variabile dipendente è il presupposto per la riduzione della politica a pura ancella dell’impresa dentro la competizione globale. La Fiat vuole realizzare l’utopia capitalistica di deterritorializzare l’azienda, di rendere le condizioni di lavoro indifferenti al territorio ove si lavora per il capitale globalizzato. Fino ad oggi i padroni delocalizzavano l’azienda alla ricerca di condizioni a loro più favorevoli, adesso la Fiat fa il passo successivo, unificando al ribasso le condizioni dei lavoratori italiani. La Fiat vuole abolire il Contratto nazionale di lavoro per applicare il contratto della globalizzazione, quello individuale, quello in cui ogni lavoratore è in concorrenza con l’altro su scala planetaria. La Fiat, in concorso pieno e solidale con Berlusconi, vuole costruire in Italia un vero laboratorio negativo della ristrutturazione europea. Se il primo passo riguarda i rapporti di lavoro, il secondo dovrà riguardare il quadro costituzionale e legislativo in cui i rapporti di lavoro si determinano. Banalmente, la democrazia è la forma con cui in occidente il capitalismo ha gestito la sua fase di crescita e sviluppo, ma non è la forma con cui il capitalismo può gestire l’impoverimento di un Paese. Parlo di impoverimento a ragion veduta. La scelta di demolire i contratti nazionali e di precarizzare integralmente il lavoro è una scelta di bassi salari e di distruzione del welfare, cioè una scelta di impoverimento di larghi strati della popolazione - a partire dai giovani - che punta a costruire una società più gerarchica e diseguale.
Questa rivoluzione conservatrice di cui Marchionne e Berlusconi si fanno portatori non sarà indolore e non ha un esito scontato. Il problema principale che sconta, è la rottura dell’orizzonte di progresso, che rappresenta il vero senso comune di massa del Paese. Non è semplicissimo convincere milioni di genitori che i loro figli dovranno stare peggio di come sono stati loro. Non è semplicissimo convincere quei ragazzi e quelle ragazze che gli hanno rubato la vita, che sono finiti in guerra senza saperlo, che ne devono pagare le conseguenze mentre i ricchi guardano dall’alto. Non è semplicissimo convincere intere generazioni che “gli è andata male”, che sono vittime della sfortuna e pazienza.
L’attacco è quindi forte, ma non privo di contraddizioni e punti deboli. Decisivo per noi agire con tempestività e chiarezza sapendo che i prossimi giorni saranno decisivi per il prosieguo della battaglia. Tre sono le priorità su cui agire. In primo luogo occorre operare in Fiat affinché il plebiscito vada di traverso a Marchionne. In secondo luogo occorre costruire una consapevolezza di massa tra i giovani e i lavoratori di cosa sta accadendo in Fiat, delle sue implicazioni per tutti e della necessità di una risposta unitaria, dello sciopero generale. In terzo luogo occorre costruire una campagna di massa contro il federalismo – che andrà in votazione nelle prossime settimane – e che rappresenta a livello territoriale l’applicazione della linea di Marchionne sull’impresa.
Il rilancio del Partito della Rifondazione Comunista e della Federazione della Sinistra, il rilancio della nostra proposta unitaria a cui le altre forze della sinistra continuano a fare orecchie da mercante, non può avvenire che nel vivo dello scontro che si è aperto.