giovedì 27 gennaio 2011

NON BASTA RICORDARE

Potrebbe sembrare inopportuno e provocatorio, in occasione della Giornata della Memoria, affermare e sottolineare i limiti del ricordare; ma credo che proprio in questo momento di riflessione che ormai da anni dedichiamo alle vittime della Shoà occorra interrogarsi sul valore politico e pedagogico della memoria; un valore che non possiamo pensare sia implicito o sottinteso. Poco prima di morire tragicamente Primo Levi aveva avanzato la proposta di ripensare all’utilità dei viaggi ad Auschwitz rivolti ai ragazzi e alle ragazze. Proprio in quanto ex-deportato, l’autore torinese vedeva i limiti di questi viaggi proprio nel loro essere spesso una mera operazione ritualistica, che non andava a toccare nel profondo le coscienze e le sensibilità degli adolescenti: una gita scolastica, dunque, con una giornata di visita al campo nella quale, quando andava bene, i ragazzi atteggiavano il loro viso al cordoglio e alla tristezza. E nient’altro, o quasi. Queste operazioni, come tutte le altre occasioni nelle quali ricordare le vittime si limita a un ritualistico e distratto omaggio retorico, non solo sono inutili ma fanno il gioco proprio di coloro che vorrebbero che si dimenticasse.
Non è un caso che negli ultimi anni, non solo in Italia, la Shoà sia entrata nel dibattito pubblico come strumento politico, spesso brandito proprio da quelle forze che fino a non molti anni fa erano al fianco, più o meno ammicanti, delle varie riedizioni del revisionismo. Oggi la memoria della Shoà viene anche usata strumentalmente per stigmatizzare i comportamenti di capi politici, soprattutto del mondo islamico, che di volta in volta sarebbero il “nuovo Hitler”; non si vede però all’orizzonte un discorso sulla Shoà che ne evidenzi il carattere di attualità nel suo aver realizzato un connubio tra tecnologia e potere, nel suo avere lentamente e gradualmente esautorato ogni diritto delle minoranze e ogni discorso a loro favore, nel suo avere sterminato, a fianco degli ebrei e delle ebree, comunisti e democratici, rom e testimoni di Geova, omosessuali e oppositori politici. La Shoà parla di noi: di noi come esseri umani, di noi che alberghiamo nella nostra coscienza il mostro che è pronto a rinascere quando qualche manipolatore politico riesce a legittimarne gli impulsi, di noi che vediamo continuamente disegnarsi attorno a noi la zona grigia dei collaboratori del dominio, degli ottusi funzionari pronti ad obbedire ad ogni ordine, dei cortigiani proni a qualunque desiderio del Principe di turno e ciechi e sordi nei confronti di ogni pensiero critico.
Ma la Shoà parla di noi anche e soprattutto perché le procedure e le strategie dello sterminio non sono state annientate dalla straordinaria forza di resistenza che spazzò via il nazifascismo. Posti a sedere differenziati per lombardi doc sulle metropolitane; maiali portati a urinare sul terreno sul quale deve sorgere una moschea; asili nido vietati ai figli degli immigrati clandestini; medici e dirigenti scolastici ridotti a spie per denunciare il clandestino che si fa curare o frequenta la scuola. Chi non vede in queste proposte, per ora semplicemente buttate lì “per vedere l’effetto che fa”, disegnarsi un piano che ovviamente non porterà allo stesso risultato ottenuto dall’hitlerismo ma certamente va a pescare nella stessa zona torbida di emozioni, rabbie, irrazionalità?
Dunque ricordare non basta; è un dovere civico e morale, nonché politico, ma non può essere la conclusione o la finalità di un percorso educativo, bensì ne deve essere l’inizio. Partiamo dalla memoria per farne uno strumento di cambiamento e di denuncia nei confronti di una dimensione del Male che è ancora tra noi: non solo nelle proposte di movimenti razzisti o di politici antidemocratici ma nelle nostre vite quotidiane, al bar come in stazione, a scuola come in piazza, “stando in casa e andando per via”; un Male che si nutre dell’umiliazione del diverso di turno, del pestaggio dell’omosessuale, dell’insulto al maghrebino, della violenza alla donna, del quartiere sempre meno a misura di bambino e di bambina. C’è una memoria appassita e sfiorita, una memoria che non interroga più nessuno, che non smuove più alcun sentimento; e c’è una poesia della memoria, una sua forza creativa, che riesce addirittura a far nascere nuovi modi di vivere insieme, nuove politiche, nuovi esseri umani. Per questo, di fronte alle memorie dei deportati e delle deportate, non basta aprire la porta alle emozioni, troppo spesso lasciate a se stesse e dunque inutili; dal mondo emotivo la memoria deve passare all’universo della ragione, della critica, della politica. Nella poesia della memoria, allora, il passato sfocia nel futuro, il ricordo abbraccia il progetto, la nostalgia sposa l’utopia: ricordare non basta se non è l’inizio di una azione politica per costruire un diverso futuro; anzi, è addirittura dannoso se è solamente un vuoto rituale, che ci aiuta a chiudere gli occhi sulle violenze di oggi, che rischiano domani di non avere nemmeno l’onore di una giornata di riflessione tutta per loro.